La volontà d’impotenza

di Pier Paolo Dal Monte

I paesi che fanno parte del sedicente “mondo libero” (quelli che esportano la democrazia, per intenderci) sono teatro, negli ultimi tempi, di un esperimento sociale, su scala mai intrapresa in precedenza. L’avvento della cosiddetta “pandemia” ha costituito la scusa perfetta per mettere a punto ed attuare limitazioni delle libertà, personali e sociali, che, fino a poc’anzi, erano date per scontate, nonché sancite dai vari ordinamenti costituzionali. Accanto a questo, dato che la tecnologia è neutra (risate), sono stati messi a punto dispositivi di controllo che, potenzialmente, sono in grado di costituire, a tutti gli effetti, un carcere virtuale, per i cittadini, le cui avvisaglie si sono manifestate nello stato di eccezione permanente che si è instaurato nel corso degli ultimi due anni.

Questa situazione non pare essere modificabile tramite gli strumenti politici a disposizione delle democrazie parlamentari, le quali, peraltro, sono state sospese. Dato l’indiscutibile carattere autoritario che il sistema ha assunto, si sente, sempre più sovente, paragonare questi tipi di dispotismo tecnocratico ad altri regimi del passato, ovvero a quelli che con denominazione alquanto semplicistica furono chiamati “totalitarismi”.

Questo è il retaggio di quella sciocca ermeneutica, costituita da ragionamento comparativo, secondo cui, ogni fenomeno per il quale non esiste una descrizione immediata, deve essere giocoforza ricondotto in un alveo lessicale conosciuto e, pertanto, comparato a qualcosa di noto o, come in questo caso, identificato o, per ciò che riguarda i fenomeni storici, a qualcosa di già accaduto.

Come scrivemmo in un articolo precedente, la storia non conosce retromarce e, pertanto, ogni comparazione assume l’aspetto di una falsa (anche se comoda) ermeneutica che fa di “tutt’erba un fascio”. Quest’ultima può, senza dubbio, essere confortante, 

dato che analizza questi fenomeni mediante una sorta di “assolutismo magico” che li vede isolati dal contesto, ossia come un’ escrescenza della storia, determinata, più che altro, dall’avvento del Male nelle cose umane, una possessione diabolica di cui furono vittima alcune comunità o nazioni che perseguirono il “Male assoluto”, ma rimane, fondamentalmente, una sorta di pargoleggiamento ermeneutico dettato, più che altro dalla scriteriata attitudine che postula che il “normale percorso della storia” sia quello di un continuo “progresso”, non  solo materiale ma, soprattutto, sociopolitico e culturale (in buona sostanza: un significante privo di significato) e, pertanto, il mistero di quelle iniquità può essere spiegato soltanto con la presenza di qualche influsso maligno sul corso della storia.

Se fu operazione piuttosto superficiale l’accomunare fenomeni politici

che furono contrassegnati da grandi differenze, sotto un comune denominatore, il cosiddetto “totalitarismo” che, in realtà, è una falsa sineddoche, tanto più lo è l’assimilare quei regimi al nostro. 

Pertanto, è piuttosto sciocco (oppure una vera e propria operazione di Maskirovka)descrivere il regime attuale come “nuovo nazismo”, “fascismo sanitario” e con tutte le numerose varianti sul tema, mostrando i simboli di allora (svastiche, ecc.) per stigmatizzare il dispotismo del presente, arrivando, addirittura, ad invocare una “nuova Norimberga” (intendendo, ovviamente, il processo, non le adunate hitleriane) 

per punire i colpevoli; come se il semplice accostamento verbale o l’esibizione di emblemi vituperati sia sufficiente per dar ragione del fenomeno attuale.

È bene, dunque, cercare di mettere un po’ di ordine in questo guazzabuglio.

Quella che viviamo attualmente può essere definita come una “tecno-dittatura” che ha iniziato a manifestarsi grazie allo “stato di emergenza pandemico”, tosto mutatosi in stato di eccezione, in virtù del quale si è fatto strame della struttura legale dello Stato, della divisione dei poteri e dell’attribuzione degli stessi, ovvero, ne sono state svuotate le strutture, pur mantenendole in piedi dal punto di vista formale. 

Il termine “tecno-dittatura” (neologismo alquanto cacofonico, per la verità) ha lo scopo di definire sinteticamente, le modalità di questo tipo, inedito, di dispotismo; inedito perché non si manifesta attraverso l’uso della forza, ma tramite dispositivi di controllo elettronici, che sono assai più efficaci e pervasivi, e consentono di controllate tutte le attività della vita quotidiana dei cittadini (dalle transazioni agli spostamenti). 

Da questo punto di vista non è possibile trovare paragoni nella storia (se non, in embrione, nella fiorente attività di intercettazioni telefoniche ed ambientali della STASI e del KGB) perché, ai nostri giorni, non sono più necessarie le violenze e le coercizioni fisiche che hanno caratterizzato i regimi di un tempo (se non in minima parte): le camicie nere, la Gestapo, i campi di concentramento, i vuelos de la muerte, la tortura (anche se crediamo che, all’occorrenza, queste pratiche, non sarebbero disdegnate, come ci insegnano i seguaci di Stefan Bandera, difesi a spada tratta dai paladini dei diritti umani), anche perché gli apparati polizieschi delle moderne dittature tecnocratiche sono assai meno sviluppati di quanto lo fossero nei regimi del secolo scorso.

Un’altra differenza fondamentale è riconoscibile nel fatto che, i regimi del passato, erano dittature conclamate, ovvero non nascondevano la loro natura, mentre quella odierna è surrettizia, perché si ammanta dell’aspetto formale di “democrazia rappresentativa” (risate). Quest’ultima, tuttavia, è stata completamente svuotata di ogni aspetto sostanziale (questo processo non è iniziato oggi, ma oggi si è completato), in quanto, la rappresentatività è completamente estinta, le costituzioni disattese e le leggi, disapplicate (o applicate con estremo arbitrio).

Tuttavia, la differenza più rimarchevole non è rappresentata dalle modalità di governo, ovvero, non dai mezzi, bensì dalle finalità immanenti, ossia ciò che, in ultima analisi ne determina la forma, le caratteristiche e le relative mitopoiesi.

Questa caratteristica, che accomuna tutte le dittature del secolo scorso (ma non la nostra) è quella che potremmo definire come “volontà di potenza”, da cui originarono le diverse “mitologie totalitarie”. 

Il fascismo, ad esempio, fece mostra di ispirarsi al mito della Roma imperiale ed alla sua grandezza. Il nazismo confezionò la favola della razza ariana, la stirpe superiore che originava dalla leggendaria Thule, la “dimora artica dei Veda”: un mito d’accatto che, tuttavia, si guadagnò la fede, finanche, dei gerarchi del regime, che profusero ingenti risorse per cercare di dimostrarne la veridicità.

Il bolscevismo, dal canto suo, e da una prospettiva alquanto differente, ricorse alla mistica della frontiera, dell’uomo che conquista la natura ostile, e la trasforma in docile strumento nelle proprie mani.

Possiamo trovare un’immagine efficace di questo mito in un discorso che Vladimir Zazurbin tenne, nel 1926, in occasione del congresso degli scrittori sovietici:

«Lasciamo che il fragile petto della Siberia sia rivestito dall’armatura di cemento delle città, dotato del sistema difensivo pietroso delle ciminiere, cinto da una fascia ferroviaria. Lasciamo che si abbatta e che si bruci la taiga, lasciamo che le steppe vengano calpestate. Così sia; e del resto inevitabilmente così sarà. Solo col cemento e il ferro si forgerà l’unione fraterna di tutti i popoli, la ferrea fratellanza dell’umanità»

 Michail Pokrowski, prominente storico della rivoluzione, profetizzava che sarebbe giunto il tempo in cui:

«scienza e tecnica raggiungeranno una perfezione quasi inimmaginabile, tanto che la natura si trasformerà in malleabile cera nelle mani dell’uomo che la plasmerà suo piacimento». 

Il comunismo era “il potere dei Soviet più l’elettrificazione”, le grandi opere ne avrebbero lastricato la via.

Insomma, pur se declinata secondo diverse mitologie, la volontà di potenza era il vero punto in comune dei regimi del ‘900: si perseguiva la creazione dell’uomo collettivo come incarnazione della potenza della megamacchina sociale, la quale doveva manifestarsi sia nel dominio della natura che in quello delle altre nazioni (il Lebensraum). Tutto era guidato da una vera e propria smania costruttivistica che si manifestava nel gigantismo delle opere: ponti, dighe, imponenti edifici, bonifiche, canalizzazione di fiumi.

Naturalmente, il settore nel quale, più che in ogni altro, si manifesta la volontà di potenza, è quello bellico; dunque, la corsa agli armamenti, che è il modo più efficace per manifestare il potere della nazione, al quale si abbinano la volontà di conquista e le ambizioni imperiali, ossia il Lebensraum declinato in modi diversi.

Disdicevole? Certo, tanto disdicevole da condurre al conflitto più sanguinoso della storia umana, perché la potenza può distruggere siccome può costruire. Tuttavia, la volontà di potenza, pur se può portare a conseguenze alquanto aberranti, come nei casi citati, è ciò che contraddistingue l’homo faber, la cui caratteristica è quella di manipolare e, quindi, dominare, il “materiale grezzo” fornito dal mondo naturale, così come dominò il fuoco fornito da Prometeo, che può forgiare siccome incendiare.

Crediamo, dunque, che sia questa caratteristica a costituire la differenza assiale che distingue i regimi del passato da quello del presente.

Per la prima volta, nella storia, ci troviamo di fronte ad un regime che è fondato su quella che potremmo definire come “volontà d’impotenza”: la sua mitologia non si ispira ad immagini grandiose, non è guidata da una brama di espansione, ma da una coazione all’annichilimento, ad una diminutio antropologica e sociale che postula l’indegnità dell’uomo, quasi aspirasse ad una seconda cacciata dal paradiso terrestre (che, peraltro, non è paradisiaco come il primo). È l’ideologia terminale di un lungo processo di astrazione del mondo, di ablazione della sua tangibilità, iniziato con l’imporsi delle “qualità primarie” e proseguito egregiamente con la reductio ad signum indotta dalla primazia del valore di scambio, della notazione, che ha preso il posto della materia e del tempo della vita, e ha partorito un mostro che, come Crono, ha divorato i propri figli.

“L’uomo è antiquato” e dunque, sta rapidamente diventando pleonastico.

Quest’ inessenzialità ontologica ne determina il destino: non essendo, non deve neanche avere, non deve consumare la materia del mondo, né pretendere di avere un proprio luogo sulla terra. Come un qualsiasi prodotto di scarto può essere utile, tuttalpiù, per recuperare il materiale di cui è fatta la sua vita, ciò che lo circonda e costituisce il suo mondo, affinché possa venire immesso nella fucina del valore ed essere trasformato in segno su qualche libro contabile (l’accumulazione per espropriazione).

Lo stesso mito del progresso che, per secoli, è stato la bussola che ha guidato il cammino della modernità, sembra essersi perso nella nebbia di questo scampolo di storia. 

Nel dopoguerra, i rimpianti “trent’anni gloriosi”, l’uomo fu massimamente abbagliato dalla faccia grandiosa del progresso: il “potere sull’atomo” e, dunque, sulla struttura stessa della materia; la conquista dello spazio; l’apparente affrancamento dalle limitazioni imposte dalla natura, mediante strumenti sempre più potenti. Quell’idea di progresso senza limiti, catturava l’immaginazione collettiva dell’epoca e sembrava destinato a trasformare l’uomo in una sorta di semidio quasi onnipotente.

Nel corso del tempo, la più parte di quelle fantasticherie si è infranta contro le scogliere della storia, perché l’apparente spontaneità del moto del progresso era determinata, in realtà da motivi contingenti, in primo luogo dall’ ambizione alla supremazia tecnologica (e, quindi simbolica), delle grandi potenze dell’epoca. Finito quel periodo, il progresso iniziò a prendere altre strade, quasi a voler mostrare che, lungi dall’essere la guida della storia, sia, in realtà, quest’ ultima (e lo Zeitgeist immanente) a determinarne la forma.

Comparve un libello dal titolo “I limiti dello sviluppo”, il termine “ecologia” si stava facendo strada e, così, il concetto di “ambiente” inteso come habitat. L’uomo non venne più considerato come l’allievo prediletto di Prometeo, ma divenne una specie tra le tante che dimorano sul pianeta Terra.

Il petrolio divenne una risorsa scarsa (le crisi degli anni ’70) ed iniziò lungo periodo nel quale l’austerità divenne l’orizzonte dei governi occidentali. Improvvisamente, qualcuno si accorse che il “baby boom” aveva fatto diventare il pianeta troppo popolato e che la specie umana era troppo avida e vorace, e stava distruggendo l’“ambiente”.  Così il senso di colpa puritano, partì dall’ “anglosfera” ed iniziò a diffondersi nel mondo, siccome una pandemia.

La volontà di potenza, che aveva guidato il progresso in una certa direzione (il trionfo della megamacchina), si arrestò, ed il progresso si trovò incerto su quale strada prendere, come un viandante in terre ignote. 

Iniziò a farsi strada la volontà d’impotenza che si manifestò in una smania di “dematerializzazione” (la fine dell’homo faber), accompagnata dal proliferare di sistemi di controllo sociale, sempre più pervasivi, ossia i dispositivi elettronici che, oggi, determinano tutti gli aspetti della vita e che consentirono di creare un nuovo universo di categorie merceologiche. Quando la moneta fu, finalmente, liberata da qualsiasi pastoia materiale (1971), anche il profitto si liberò progressivamente dalla materia e, infine, si orientò definitivamente verso la paccottiglia finanziaria ed informatica

Tuttavia, il mito del progresso non poteva essere ablato tout court, perchè ciò avrebbe portato alla scomparsa di ogni soteriologia residua, dato che, l’immagine di un universo, fatto esclusivamente di materia in preda al decadimento entropico senza la speranza di divenirne il “maitre et possesseur” non poteva fornirne alcuna.

Se un intero sistema storico si basa sul mito del progresso e questo assume la forma della potenza materiale, è difficile imporre all’immaginazione collettiva un cambiamento di quella portata ed evitarne le reazioni. Nel momento in cui la pax americana e la conseguente americanizzazione del mondo (chiamata impropriamente “globalizzazione”) aveva condotto alla “fine della storia”, rendendo inutili le velleità di potenza (almeno, da parte di tutte le entità che non fossero gli USA), era necessario confezionare un nuovo mito millenaristico per sostituire quelli precedenti. 

Così, il pensiero straccione di questo scampolo di modernità, confezionò, alla bisogna, un pugno di miti miserelli per resuscitare il progresso sotto sembianze diverse: non era più guidato dalla volontà di potenza ma da una mal definita accozzaglia di illusioni di nuovo conio, il cui tratto comune  non era più il dominio sul mondo o la liberazione dell’uomo dall’affanno, ma l’affrancamento dalle pastoie antropologiche e naturali che hanno, in qualche modo, connotato, fino ad ora, l’esistenza umana. Quest’accozzaglia si è manifestata in forme assai varie (come avviene con la diversificazione dei prodotti secondo varie nicchie di mercato): si va dalla negazione della sessualità biologica, col delirio della moltiplicazione dei “generi””, al puritanesimo culturale, che vuole scancellare la storia, l’arte e la letteratura poiché non allineate con le allucinazioni del perbenismo sociale.

Il linguaggio stesso è sottoposto ad una censura sempre più esiziale e viene quindi inibito e scolorito, a tal punto, da rendere la comunicazione quasi impossibile. Ormai l’espressione verbale si avvale, quasi esclusivamente, di significanti vuoti.

Così, si è fatto strada un nuovo mito, insulso e meschinello, come tutto quello che è prodotto da quest’epoca sterile, un miterello preso, pari, pari, dalle farneticazioni calviniste (eh, lo spirito del capitalismo…), ovvero quello dell’indegnità dell’uomo, colpevole di non aver saputo preservare l’ambiente (ossia l’habitat) che gli è “stato affidato”e, pertanto, deve essere posto sotto controllo, in maniera che la smetta di disturbare il creato

 La volontà d’impotenza è la mistica dei tempi ultimi, della fine della storia, nella quale il lupo non pascolerà con l’agnello ma l’uomo potrà fondersi nella macchina alla quale ha dato vita: l’uomo algoritmico, epurato da volontà e scopi e dunque dall’imprevedibilità umana, scevro dal male siccome dal bene, dimentico di essersi nutrito dall’albero della conoscenza. È una vera e propria “dittatura del nichilismo”, l’après moi le déluge di una civiltà che non vuole più avere scopi, energia o moventi per proseguire il proprio cammino e che, quindi, sta facendo di tutto per impedirsi qualsivoglia cammino. 

Note:

[1] (di questa semplificazione è responsabile, in buona parte, l’omonimo libro di Hannah Arendt)

[2] Ad esempio, è stato consentito ai presidenti di regione di chiudere i “confini” (inesistenti) delle stesse

[3] B.G.Tilak, The arctic home in the Vedas, TILAK BROS Gaikwar Wada, Poona, 1903

[4] F. R. Shtil’mark., The evolution of concepts about the preservation of nature in Soviet literature, Journal of the History of Biology, 1992, 431

[5] Cit. in: J. R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino, 2000, p.423

[6] L’Amu Darya fu deviato per costruire opere di irrigazione per le coltivazioni di cotone dell’Asia Centrale sovietica, e questo portò al prosciugamento del lago Aral

[7] D. H. Meadows, D. L. Meadows, J. Randers, and William W. Behrens III, The Limits to Growth. New York: Universe Books. 1972

[8] Prima della metà degli anni ottanta, difatti, il vasto pubblico non parlava di “borsa” e gli economisti erano considerati dei tecnici contabili non intitolati ad esprimere una qualsivoglia epistème

[9] Naturalmente, nessuno è sfiorato dal concetto che, per il capitalismo, l’ambiente sia stato sempre e solo concepito base per la moltiplicazione di mezzi di scambio

[10] Hermann Rauschning definì il nazismo: ”dittatura del nichilismo”, ma non vi è alcunché di nichilistico nella volontà di dominio, per quanto perversa essa possa essere.

Pubblicato il 30/05/2022 su:

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